CAMPIONATO CALCIO A 8 TORINO – Imprendibili i ragazzi dello Zarsenal che trionfano spettacolarmente per sette a due sui Senza Nome che nonostante la solita grinta non riescono a tenere a bada il tiki-taka dei gialloneri, risultato finale sette a due. Anche il Real No Limits è autore di una bella prestazione e lo fa vincendo e convincendo contro F.C. Zeus quattro a uno, stessa sorte per FC Nderi che batte cinque a tre il Celsius infine è di rapina la vittoria del Racing sull’Atletico Madrink per uno a zero, emozioni a non finire! Pier Paolo Pasolini, grande pensatore e ottima ala destra; Pasolini definiva il calcio come: «l’ultima rappresentazione sacra del nostro tempo. È rito nel fondo, anche se è evasione. Mentre altre rappresentazioni sacre, persino la messa, sono in declino, il calcio è l’unica rimastaci. Il calcio è lo spettacolo che ha sostituito il teatro».
Il football, viene inteso come è un sistema di segni, cioè un linguaggio. Esso ha tutte le caratteristiche fondamentali del linguaggio per eccellenza, quello che noi ci poniamo subito come termine di confronto, ossia il linguaggio scritto-parlato.
Infatti le “parole” del linguaggio del calcio si formano esattamente come le parole del linguaggio scritto-parlato. Ora, come si formano queste ultime? Esse si formano attraverso la cosiddetta “doppia articolazione” ossia attraverso le infinite combinazioni dei “fonemi”: che sono, in italiano, le 21 lettere dell’alfabeto.I “fonemi” sono dunque le “unità minime” della lingua scritto-parlata. Vogliamo divertirci a definire l’unità minima della lingua del calcio? Ecco: “Un uomo che usa i piedi per calciare un pallone è tale unità minima: tale “podema” (se vogliamo continuare a divertirci). Le infinite possibilità di combinazione dei “podemi” formano le “parole calcistiche”: e l’insieme delle “parole calcistiche” forma un discorso, regolato da vere e proprie norme sintattiche…
I “podemi” sono ventidue (circa, dunque, come i fonemi): le “parole calcistiche” sono potenzialmente infinite, perché infinite sono le possibilità di combinazione dei “podemi” (ossia, in pratica, dei passaggi del pallone tra giocatore e giocatore); la sintassi si esprime nella “partita”, che è un vero e proprio discorso drammatico. I cifratori di questo linguaggio sono i giocatori, noi, sugli spalti, siamo i decifratori: in comune dunque possediamo un codice. Chi non conosce il codice del calcio non capisce il “significato” delle sue parole (i passaggi) né il senso del suo discorso (un insieme di passaggi).
Il calcio, per Pasolini dunque, diventa un testo da leggere, da comprendere, da decifrare, da esterno, con la palla tra i piedi, ma lo si affronta come un libro, ossia con trasporto, romanticismo, passione, interesse, perché, “Dopo la letteratura e l’eros, per me il football è uno dei grandi piaceri”.
E dalla letteratura potremmo citare il cinema, con svariati film quali Fuga per la vittoria, Febbre a 90min., Gol!, ed andare oltre, citando la “Partita della morte”, la storia di Sindelar, di Arpad Weisz, a testimonianza che il calcio ha rappresentato una parte importante contro i regimi, ed è entrato nella politica lasciando il segno a più riprese.
Oltre le emozioni però il calcio è anche schemi di gioco, puramente riconducibili alla filosofia. Difficile da credere? Beh, proviamo a spiegare questo binomio. Ricapitoliamo dall’inizio: il calcio è uno sport, un gioco, un’esperienza, una condizione dell’animo umano. E’ uno e molteplice, come i significati che lo colorano. E’ impegnativo, ma comprensibile. E’ pieno di vizi, ma ancor ci appassiona. E’ oggettivo e soggettivo, ideale e reale (a volte anche troppo). E’ poetico, tragico, comico, letterario, romanzesco, patetico, esagerato. Un fiume in piena, che merita d’esser analizzato.
Mettiamo insieme l’improbabile triangolo composto da: calcio, letteratura e filosofia. Magari per molti di voi, sarà un tentativo a vuoto, ma quanto meno, interesse e sorrisi verranno strappati.
Disponiamo il modulo. Restiamo sul classico: 4-4-2. Si parte col ruolo più difficile: dentro l’area, c’è lui, il portiere. Trovargli una sistemazione tra le scuole di pensiero è impresa ardua. Potrebbero andare bene tutte, o quasi. Due autori però, lo interpretano bene. Il primo è Fichte, l’idealista. Io e Non-Io in lotta continua, in una nevrosi lunga novanta interminabili minuti. Tende verso l’assoluto, ma non sa come arrivarci. Uscire o restare in porta? Presa o deviazione? Nella sua solitudine, il portiere non conosce mezze misure: o la gloria o la dannazione. Dunque, o Nietzsche o Kierkegaard. Superomismo da una parte, angoscia e dannazione dall’altra. E non può nemmeno scegliere: la sua sorte, è affar anche altrui. Quant’è dura, la solitudine dei numeri uno?
Passiamo alla difesa: la figura del terzino balza dalla filosofia alla letteratura. Il terzino, destro o sinistro che sia, è il riferimento calcistico di Victor Hugo. Lungo la fascia, alterna il grottesco al sublime, calciando con la dolcezza di un fabbro, o destreggiandosi in lunghe, cavalleresche peregrinazioni all’ombra delle tribune. A volte i suoi errori costan caro, a volte regala spettacolo. Ma il fascino del terzino va bene così: non si può vivere, senza la poetica fatica dei cursori di fascia.
Al loro fianco, troneggiano due figure, i difensori centrali. Una volta li chiamavano stopper, e il nome era già un’apertura al loro mondo. Contrari ad ogni forza per natura, i difensori centrali sono i proseliti dello scetticismo nel terzo millennio. Contro tutto e tutti, colpo su colpo, gamba o pallone. Una volta ci aveva provato Hegel a toglierli di mezzo, “umiliandoli” ne “La fenomenologia dello spirito”. Diceva che a forza di negare tutto, avrebbero negato anche il motivo della loro esistenza. Subito sorse qualche interrogativo. Poi qualcuno pensò che Hegel non capiva di calcio, e sono tornati in campo, prepotenti come non mai!
Avanziamo a centrocampo, e sul lato destro c’è lui, l’ala, con il numero 7 sulle spalle. Non è nè attaccante nè difensore, deve creare ma anche rompere il gioco. A volte macina chilometri chiamando la palla, predicando nel deserto. Altre volte semina il panico, crossa al centro ma… non c’è nessuno pronto a raccogliere l’invito. Spossato e triste, corricchia qua e là, scuotendo la testa. Spesso non si sente capito, e cade in una condizione esistenziale di patimento e di incomprensione. L’esterno destro è un po’ Montale e un po’ Baudelaire, tra il male di vivere ed una tristezza meditativa, causa la mal comprensione dei suoi “capolavori”. Nel dubbio però, lui continua a correre e creare. Un po’ come uno stoico, che soffre senza darlo a vedere, in attesa della redenzione. Siamo sicuri che anche lui, un giorno, raggiungerà l’agognata beatitudine.
In mezzo al campo operano l’incontrista e il regista. Tanto diversi e tanto uguali, si completano l’un l’altro, aiutandosi a vicenda. L’incontrista è Giovanni Verga, cultore del verismo calcistico più asciutto, senza poesia, senza ricami, senza la gioia di un colpo di genio col pallone. Nel suo concetto di calcio, per una squadra vale la stessa metafora che simboleggia, ne “I Malavoglia”, la famiglia di ‘Ntoni: il pugno, dove le dita devono essere strettissime tra loro, per far sì che tutto funzioni. Lì, fin che ce n’hai (va dato atto a Ligabue in questo caso), senza motivi alcuni di essere ricordato, a meno di storici eventi, di una classe operaia che (almeno una volta) va in paradiso. Il suo vicino, col numero 10 sulle spalle, è l’esatto opposto. Il regista è Schelling, il suo calcio è arte, figlio di continue ed illuminate intuizioni estetiche. Anche lui cerca l’assoluto, e a volte lo raggiunge. Non per nulla è un artista, specie rara, nel calcio d’oggi. Beati loro, non riesce a tutti, anche perché, la fortuna è dalla loro parte; Dio o meglio, il Dio del calcio gli ha dato tutto, anche un mediano che corre per lui, gli ha dato i piedi buoni, la visione di gioco, il gran tiro e quindi le luci della ribalta, il successo, il massimo punto di estetismo. Perché generalmente il 10 è anche bello, affascinante. Insomma, fin troppo facile essere schiavo della propria grandezza!
Lungo la corsia mancina c’è l’eclettico numero 11. Sulla sua identità non ci sono dubbi: l’esterno sinistro è Gabriele D’Annunzio. Per lui il dribbling è tutto. Dribbla qualunque cosa, avversari e compagni, a volte persino se stesso, giocando praticamente in un altro contesto calcistico. Esteta per eccellenza, vive per la giocata ad effetto, si spende per l’effimero, ricerca il bello fine a se stesso. A volte, per sbaglio, taglia verso il centro dell’area e segna di testa. Ma lui non se ne accorge, e non può permettersi di scomporsi in esultanze, perché di fatto, il gol bello per lui è da fermo, piazzato, magari a “foglia morta” (Caro Mariolino Corso….)
Infine, resta il reparto d’attacco. La seconda punta è poeta maledetto. Il suo modo di giocare, è la trasposizione calcistica della tematica portante degli artisti del genere: un continuo, logorante confronto tra il sogno e la veglia. A volte illumina, a volte scompare nell’anonimato. Spesso regala spunti geniali, altre si addormenta, perdendosi nel vuoto delle difese avversarie. Il ruolo di spalla lo affligge, anche se a volte recita da primattore. Ma non ha il fisico, e si deve accontentare dell’assist, del passaggio filtrante al momento giusto. Purtroppo è duro il destino, nei confronti delle seconde punte, perché la gloria è del centravanti, una figura omerica: è Ulisse, in tutto e per tutto. Sempre in viaggio sul fronte d’attacco, vaga alla ricerca del dell’occasione per tornare ad Itaca. Quando la vede, fastidiosi Proci vestiti da stopper e da portieri tentano di ostacolarlo nella marcia lungo la retta via. Ma lui torna, sconfiggendoli tutti. E Penelope, santa donna, è sempre là, tesa sulle tribune, pronta a gioire per il suo ritorno.
Oltre gli undici in campo, la squadra è formata da chi in campo scende meno, o quasi mai. I panchinari sono come il libro dell’inquietudine di Pessoa: soffrono, vivono il tormento delle sfide, a tratti tediati dall’immobilismo; A volte entrano in campo, danno il loro contributo e riescono a cambiare le sorti della gara, come fosse l’ultima occasione della propria vita: “vivere o morire, come se non ci fosse un giorno in più, ma solo un giorno in meno”. Il più delle volte però siedono in panchina, e “ballano quando vedo(no) ballare”, e sta bene comunque così. Nel classico tormento tra stasi e gioia. La vera forza di una squadra, si misura anche dagli uomini in panchina.
Concludiamo dunque con colui che siede in panchina: l’allenatore. L’allenatore non può essere che Dante: da bordo campo, assiste alla Divina Commedia del calcio. In un campionato vede tutti e tre i regni: Inferno, Purgatorio e Paradiso. Vorrebbe rimanere nell’ultimo, ma non sempre riesce nell’impresa. Però, la sua Commedia ha una differenza, rispetto a quella dantesca: l’opera che dirige, inginocchiato, col cronometro in mano, può essere ripetuta, e la Commedia, può diventare davvero “Divina” anche per lui.
Tra ironia e realtà, il triangolo filosofia-calcio-letteratura regge bene. Chiunque abbia mai calciato un pallone si riconsce in ogni parola detta da grandi artisti, poeti e geni. Nel calcio tutto diventa invenzione, genialità, opera, grazie a geni che sono riusciti a carpire anche il minimo intrinseco valore romantico del calcio, dalla finale del mondiale, ai bambini che giocano nel parco.
Guardate al calcio come arte, con amore, con romanticismo, e riuscirete a capire cosa si prova davvero quando si ha quella palla tra i piedi, tra sogno e realtà. I grandi artisti sono riusciti a spiegare cosa si prova per questo sport, cosa crea questo sport nell’animo umano. Da sport diventa arte, che vive e si permea in ognuno di noi, in grandi similitudini della vita, perché ognuno di noi, pari al rettangolo di gioco ha un ruolo ben definito.
“Chi dice che il calcio, sia solo calcio, non capisce nulla di calcio”.